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Addio Swing, benvenuto Rock’n’Roll (1946– 1950)

La seconda metà degli anni ‘30 e l’immediato inizio del decennio successivo hanno rappresentato il periodo di massimo splendore per la musica swing e per il Lindy Hop: una cultura che si è inizialmente diffusa lungo costa orientale degli Stati Uniti, con New York ed il quartiere di Harlem come centro nevralgico, per poi espandersi lungo tutto il territorio americano. Con la Seconda Guerra Mondiale, però, molte cose erano destinate a cambiare.

Il Lindy Hop aveva debuttato al cinema ed erano sempre più i film nei quali si potevano ammirare incredibili sequenze di ballo. Sembrava davvero che nulla potesse fermare l’ascesa dei Whitey’s Lindy Hoppers e di ragazzi come Frankie Manning e Norma Miller. Purtroppo, però, nei primi anni ‘40 gran parte dei giovani ballerini fu costretta ad arruolarsi per servire la patria in guerra: lo swing sarebbe presto passato di moda…

Il lento declino dello swing nel dopoguerra

L’era dello swing, come spesso accade nel campo dell’arte e della creatività, non si è spenta da un giorno all’altro. Anche nella seconda metà degli anni ‘40, infatti, le Big Band e i grandi musicisti jazz che le capeggiavano continuarono ad avere un certo seguito: Count Basie e Artie Shaw erano solo due dei nomi più importanti che non smisero di suonare in quell’epoca così buia, cercando di portare un po’ di luce con la loro musica. Tuttavia, il loro jazz si stava evolvendo in una forma che non contemplava più il ballo come valvola di sfogo.

Le Big Band emergenti, come quelle guidate da Stan Kenton o da Boyd Raeburn, stavano trasformandosi in un qualcosa di diverso, più progressivo e sperimentale. Anche il concetto stesso di “Big Band” stava lentamente passando di moda: poco a poco, le orchestre si rimpicciolivano e indirizzavano i loro sforzi artistici nell’R&B e nel Bebop. La musica popolare iniziava a concentrarsi maggiormente sulle voci piuttosto che sull’abilità strumentale dei musicisti: sono anni d’oro per performer incredibili come Ella Fitzgerald e Billie Holiday.

Intorno al 1947 le Big Band più note si erano sciolte quasi tutte e altre seguiranno nel corso dei due anni successivi. Nei locali si stava diffondendo velocemente la musica degli hillbillies, ovvero dei contadini: oggi la chiameremmo country, ma all’epoca così erano conosciute le canzoni che gli spettatori potevano ascoltare al cinema, nel corso delle proiezioni dei film western. I maggiori esponenti del genere erano cantanti come Roy Rogers e Gene Autry, ma anche artisti come Bing Crosby e le Andrew Sisters finirono per dedicarsi al country.

Dalle Big Band… alle band e basta!

Con il declino dello swing anche le grandi sale da ballo iniziarono a chiudere i battenti. Al loro posto aprivano piccoli club nei quali i musicisti si esibivano in maniera molto più intima: un pianoforte, un basso e una batteria erano sufficienti ad accompagnare la voce protagonista. Solo in alcuni casi si aggiungeva un timido e malinconico sassofono. Il jazz pulito ed elegante di Benny Goodman lasciava così spazio a forme nuove e impossibili da ballare: musicisti come Dizzy Gillespie e Charlie Parker sancirono ufficialmente la fine di un’epoca.

Chi voleva scatenarsi in pista, dunque, sentiva il bisogno di una nuova forma musicale che potesse ereditare ciò che il Lindy Hop rappresentò per quasi vent’anni: poteva forse essere il country a raccogliere questo pesante testimone? La risposta può essere affermativa solo in parte. Dopotutto, la musica è fatta di contaminazioni e nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo suonando le scatenate pulsazioni sincopate del rhythm and blues e della musica afroamericana con degli strumenti diversi da quelli utilizzati fino ad allora.

Questo processo di fusione e contaminazione fra generi è stato senza dubbio favorito anche dalla povertà del dopoguerra e dal declino stesso delle Big Band: per dirla senza troppi giri di parole, suonare musica per far ballare le persone era diventato troppo costoso. Niente più grandi orchestre, quindi: c’era bisogno di formazioni più compatte, che comprendessero – oltre a una voce al microfono – pochi strumenti. Chi lo sa, magari una chitarra, una batteria e un basso? Insomma, dai, i più attenti avranno già capito dove stiamo arrivando!

Il rock and roll prima del rock and roll 

Prima dell’esplosione del rock and roll, comunque, altre piccole importanti rivoluzioni hanno avuto luogo nel mondo della musica e hanno contribuito alle origini del genere. Nel 1948, ad esempio, la Columbia Records introduce per la prima volta in assoluto nel suo catalogo di cosiddetti dischi da 33⅓, quei “long playing” da 25 minuti per lato che sarebbero diventati noti al pubblico con l’acronimo di LP. L’anno successivo la RCA aggredì il mercato con i suoi dischi da 45 giri, contenenti 8 minuti di musica per lato.

Contestualmente a questa evoluzione nel modo di fruire la musica, fanno la loro comparsa sul mercato le prime chitarre elettriche e gli appositi amplificatori. Il mondo stava cambiando e così il modo di suonare: è impossibile oggi definire quale sia stata la prima canzone che si possa definire davvero “rock and roll” (per sapere quando e come nasce questo termine dovrete leggere l’episodio successivo della nostra storia), ma possiamo dire che molti artisti jazz hanno contribuito in maniera significativa nella seconda metà degli anni ‘40.

Qualche esempio concreto? The Fat Man di Fats Domino, tra i tanti, potrebbe considerarsi un pezzo rock uscito prima ancora dell’effettiva nascita del rock: risale infatti al 1949. Prima ancora, nel 1946, usciva invece That’s all Right di Arthur Crudup, un chitarrista afroamericano che tutt’oggi viene considerato fra i padri fondatori del rock and roll; lo stesso discorso si può espandere a figure come Goree Carter (con la sua Rock Awhile del 1949) e Jimmy Preston (Rock the Joint, dello stesso anno). Le fondamenta erano state così costruite…